Mia cugina Phillis
Marsilio, 2001
Trad. it. di Francesco Marroni
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Quando si entra nel mondo della narrativa di Elizabeth Gaskell, ci si deve preparare a trovare lungo il cammino tante e variegate forme di racconto.
Il romanzo con cui io ho varcato questa soglia, ormai dodici anni fa, è stato North and South (che dal 2011 si può trovare anche in versione italiana, tradotto da L. Pecoraro per Jo March). Nord e Sud appartiene al gruppo dei romanzi “sociali” di Mrs. Gaskell, insieme a Mary Barton e a Ruth, storie in cui l’autrice riversò tutta la sua conoscenza e la sua esperienza della vita delle classi povere e disagiate; Elizabeth fu sempre sensibile ai drammi degli strati più bisognosi della popolazione: era solita visitare le loro case, aiutare in prima persona, organizzare per loro opere di beneficenza e di istruzione. Con Nord e Sud io scoprii una scrittrice eccezionale, della quale volevo conoscere il più possibile: mi feci dunque spedire dall’Inghilterra Sylvia’s Lovers (Gli innamorati di Sylvia, che poi ho tradotto per Jo March, 2014), Cranford e Cousin Phillis (in un unico volume Penguin), una raccolta di racconti gotici e Wives and Daughters. (Traducibile in Mogli e figlie, questo romanzo, non ancora disponibile in italiano, segna l’apice della scrittura gaskelliana, non solo perché è l’ultimo, ma soprattutto perché è il suo capolavoro stilistico.)
Questa settimana ho voluto rileggere Cousin Phillis (disponibile in inglese, gratuitamente, su gutenberg.org e in italiano, con il titolo Mia cugina Phillis, nell’ottima traduzione di Francesco Marroni per Marsilio, 2001). Questo romanzo breve – o racconto lungo – è una vera e propria gemma, il risultato perfetto della fusione di una scrittura ormai matura, sapiente e controllata, con una storia semplice e delicata ma intensissima nelle emozioni e nella rievocazione dell'ambiente (cifra stilistica nonché supremo talento di Elizabeth Gaskell), del quale ci sembra di vedere i colori e di sentire le voci e i profumi. Mia cugina Phillis è come un nastro di lucida seta, che unisce Gli innamorati di Sylvia e Mogli e figlie: la protagonista è l’adolescenza femminile, il contesto della storia ha un ruolo così dominante da diventare quasi un personaggio (Monkshaven, la fattoria degli Holman e Hollingford sono cornici senza le quali il dipinto perderebbe gran parte del suo significato), e il racconto è centrato sulla maturazione di un amore sofferto.
Fondamentale e unica in Mia cugina Phillis è la dimensione del ricordo. Quasi come in un riflesso di poesia wordsworthiana (penso al Prelude o a Tintern Abbey: Elizabeth amava tantissimo Wordsworth, che era il suo poeta preferito insieme a Tennyson), il narratore, Paul, rievoca i giorni della sua giovinezza e della sua frequentazione con la cugina Phillis Holman e i suoi genitori. La ragazza è una contadina, come Sylvia, ma suo padre, ministro della chiesa, l’ha educata a leggere il latino, il greco, e la Divina Commedia in lingua originale, cosicché, quando noi, insieme a Paul, la incontriamo per la prima volta, Phillis è una giovane donna consapevole di sé, forte, di una bellezza che riflette anche le profondità dei suoi pensieri:
Mi guardò fisso in volto, con occhi grandi, tranquilli, dall’espressione interrogativa, ma niente affatto turbati dalla vista di uno sconosciuto” (qui e in seguito le traduzioni sono mie). Straordinaria è l’immagine che ci viene data di lei intenta a leggere: “Una corrente d’aria proveniente da una fonte invisibile aprì leggermente la porta di comunicazione con la cucina […]; e io vidi parte della sua figura seduta al tavolo, mentre lei sbucciava le mele con destrezza, e insieme voltava ripetutamente il capo verso un libro appoggiato accanto a lei.”
Il romanzo è permeato di descrizioni della natura circostante: cresciuta a sua volta in campagna, che amò per tutta la sua vita, Elizabeth è una perfetta pittrice dell’esistenza rurale, dei suoi ritmi quieti e delle sue tradizioni arcaiche. Il punto culminante della sua attenzione per l’armonia dell’umanità dentro la natura è, in Mia cugina Phillis, il passo dedicato alla raccolta delle mele: “Di notte arrivava il gelo, la mattina e la sera c’era foschia, ma a metà giornata il tempo era soleggiato e luminoso […]. Trovammo grandi cesti ricolmi di mele, che profumavano tutta la casa e ingombravano il passaggio, e un’aria universale di gaia contentezza […]. Le foglie gialle pendevano dagli alberi, pronte a cadere fluttuando per il primo soffio d’aria; i grandi arbusti di margherite di San Michele nell’orto facevano mostra della loro ultima fioritura.” E anche Phillis è come un fiore, che cresce e sboccia nel calore dell’aspettativa (“Mia cugina Phillis era come una rosa, che raggiunge il suo massimo fulgore lungo il lato esposto al sole di una casa solitaria, riparato dalle tempeste”) e poi rischia di appassire nel gelo della disillusione inflittale dalla lettera di Holdsworth: “Il mio cuore era gonfio. Come tutto sembrava pacifico nella fattoria! […] Com’era immobile e profondo il silenzio nella casa! Tic tac, procedeva l’orologio invisibile sull’ampia scala. Sentii che lei aveva voltato il foglio di carta sottile. Doveva aver letto fino alla fine. Eppure non si mosse, non disse una parola, non sospirò neppure”; “Phillis non parlò, ma guardò fuori dalla finestra aperta, verso la grande e quieta luna, che si muoveva piano sul cielo del crepuscolo. Pensai che i suoi occhi si stessero riempiendo di lacrime.”
Sarà Molly Gibson, la protagonista di Mogli e figlie, a continuare la storia di Phillis per condurla verso il lieto fine. Le ragazze cadono vittima della stessa malattia, quella “febbre cerebrale” così frequente nella narrativa ottocentesca (ne soffrono anche Madame Bovary e Anna Karenina), iniziata sempre a causa di una insopportabile sofferenza emotiva; ma mentre Mia cugina Phillis si chiude su una guarigione ancora minacciata dalla debolezza, Mogli e figlie apre per Molly un futuro più luminoso. E la sua prospettiva finale di felicità segna il vero coronamento di una scrittura, quella di Elizabeth Gaskell, dedicata interamente all’analisi dei sentimenti umani.
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